Fabio? Fabio...
Sento il nome rotolare nell'aria come una sigaretta consumata. Occhi pesanti, la mente annebbiata, eppure la voce della vicina mi frulla intorno come un'ape fastidiosa. Apro un occhio pigro, intravedo il suo volto, sembra mia nonna, il telefono in mano con quel maledetto nome in maiuscolo, FABIO. Decido di aprire entrambi gli occhi, un sorriso beffardo sulle labbra.
Siamo sospesi a 9000 metri sopra il suolo, prigionieri di un Ryanair che gracchia come un vecchio arnese, e qui i miei compagni di sventura insistono nel cercare questo tal Fabio al cellulare.
Mi scusi, signora, ma qui dentro i cellulari dovrebbero essere spenti, e le chiamate sono vietate. E poi, si sa, non prendono un accidente qui su questo rottame. La donna quasi supplichevole si scusa, spiegando di aver dimenticato di avvertire il figlio prima della partenza, sto cazzo di Fabio che magari li chiamava lui.
L'ansia in fila 18 è palpabile.
Mia moglie è piantata lì in fila 3, mentre quel bastardo di Giuseppe si pavoneggia in prima fila come un re sbattuto su un trono d'oro. Io e il resto della ciurma siamo relegati nei recessi posteriori come bestie da scuderia. Prima di incontrare mia moglie, avevo una regola ferrea: mai oltre la fila cinque e sempre il benedetto posto corridoio. Ma ora, poiché lei crede che quei soldi siano sprecati, sono condannato a subire questa tortura ad ogni volo. Il famoso posto random. Te lo giuro, prima o poi me la pagherai.
Dopo interminabili trenta minuti di lamenti, finalmente la signora si placa. Appena mi accingo ad aprire il mio libro, quel cornuto del marito, che finora non ha mollato per un secondo la mano della moglie, pesca il suo dannato cellulare dalla tasca (naturalmente acceso) e tenta di chiamare il figlio. Ma che cazzo, non capite? Gli strappo il telefono di mano, lo metto in modalità aereo e chiudo la partita. Per i successivi 45 lunghi minuti, si diletterà nel schiacciare e stritolare una stupida bottiglietta di plastica, facendomi perdere la concentrazione sulla lettura e il sonno di conseguenza.
Finalmente siamo arrivati in quel casino chiamato Milano. Da un momento all'altro, il sole implacabile si è trasformato in un velo di grandine. È tipico di questa città, passi da un'estremità all'altra del clima in un battito di ciglia. Arrivati in Piazza Duomo, ritiriamo il pettorale per la nostra prima Stramilano. E ovviamente, non poteva mancare la foto di rito: la piazza che sprofonda nell'ombra mentre il Duomo brilla sotto il sole. Uno spettacolo da togliere il fiato, cazzo!
Il gruppo? Ah, il gruppo... disperso nell'incertezza, con quel senso di anarchia che lo contraddistingue. Tutti a cazzeggiare senza scopo, senza meta. Ma alla fine, la priorità è chiara: hotel e cena da Giulio Pane e Ojio, che siamo affamati come lupi in cerca di preda.
Quando arrivo in hotel, la prima mossa è sempre la stessa: preparare la roba per la gara del giorno dopo. Aggancio il pettorale alla canotta, distendo il resto delle cose su una sedia. Mia moglie, intanto, è immersa nel salotto della camera, spulciando il giornale della Stramilano e studiando il percorso. Mentre legge, mi sfodera una di quelle frasi che scuotono il silenzio: "Avevo proprio voglia di vedere questa gara", dice. Io la guardo con aria interrogativa, chiedendo spiegazioni. E lei, con la sua tranquillità disarmante, mi risponde che domani sarà un piacere vagare per questa città che ormai conosco bene, alla ricerca di te nei punti di riferimento stabiliti.
Nel frattempo, io, assorto nei miei pensieri, osservo il panorama oltre la finestra. Il palazzo di fronte è testimone di sette anni della mia vita, ho vissuto proprio lì all’ultimo piano, e mentre cerco di cogliere i dettagli che sono mutati nel corso del tempo, un senso di malinconia mi pervade. Scatto una foto con il cellulare: quelle immagini dall'alto erano il mio marchio di fabbrica quando ero nel pieno dei miei reportage giornalistici. E questa, tra tutte, finisce tra le mie preferite.
La cena, fissata per le 19:30, è un tripudio: birre che scorrono come il Mississippi, un piatto di cacio e pepe che potrebbe far venire l'acquolina anche a un santo e patate al forno che profumano di casa. In questo branco di lupi, una cosa è certa: domani si correrà come diavoli senza ansia. Lo abbiamo fatto così tante volte che la gara è diventata un gioco, un'opportunità per tirare fuori il meglio di noi stessi e ricompensarci per tutte le rinunce quotidiane.
Tra le 05:30 e le 08:30, il tempo vola via come carta straccia. Dopo un breve riscaldamento, saluto mia moglie con un bacio appassionato e mi fiondo vicino la transenna per l'ennesima pipì. Questa volta opto per l'approccio outdoor, direttamente nella prima griglia a un passo dalla telecamera. Manca un minuto alla partenza e Giuseppe, non so come diavolo ha fatto, si materializza accanto a me. Un tocco furtivo al suo membro virile e siamo pronti a sfrecciare come dannati.
Il mio vero obiettivo è mantenere un ritmo costante, veloce ma costante, senza sforzi eccessivi che possano compromettere la gara. È un test per vedere che tipo sarò fra un mese, esattamente alla maratona di Vienna. Non voglio rischiare inutilmente. Strappo giù una serie di chilometri a 3 minuti e 29 al chilometro come se fossi un purosangue sulla pista. Passaggio al 5000 in 16’55 e passaggio al 10.000 in 34’50.
Milano si mostra in tutta la sua bellezza, con un sole radioso e una temperatura perfetta. Tutto sembra andare a meraviglia quando comincio a sentire un crescendo musicale. Quei matti del mio team, i ragazzacci di HOKA, hanno piazzato una consolle sospesa intorno all'ottavo chilometro, a tutto volume. Mentre passo loro accanto, avvisto mia moglie e Francesco (che purtroppo è fermo per un fastidio), che mi incitano a suon di grida. Poco dopo, le urla di Casimiro si uniscono al coro, mentre ci lanciamo insulti e risate a più non posso.
Il giro di boa è una sfida bella tosta: cambi di direzione repentini, salitella, discesa, curve così strette che ti stringono il cuore. Arrivo al chilometro 11 e sento le gambe irrigidirsi un po'. Respiro profondamente, concentrandomi sul mio respiro, e riprendo il ritmo. E proprio mentre mi trovo immerso nel mio mondo, passo di nuovo davanti alla consolle di HOKA. Mia moglie, che mi conosce bene, mi incita con tutto il fiato che ha in corpo. Francesco, dal canto suo, fischia come un indemoniato, e io ritrovo la forza per spingere ancora più forte.
Ma proprio mentre sto prendendo slancio come un treno lanciato a tutta velocità, vedo avvicinarsi da lontano un ragazzo che urla verso di me. Inizialmente penso sia un folle qualunque che vuole impadronirsi della mia lucida follia, ma poi lo riconosco: è il famigerato Tommy, di cui vi ho parlato spesso. Devo confessare che il suo sorriso contagioso mi spruzza addosso una scarica di energia.
Arrivato al chilometro 14, afferro il gel con la speranza di trovare qualche conforto. Ma il sapore non mi convince, quindi decido di fare canestro, gettandolo in uno dei bidoni ai lati della strada. È un gioco che pratico spesso, anche durante gli allenamenti: un piccolo giochino divertente.
Ma la mia mente comincia a fare i capricci. Inizia a inviarmi messaggi del tipo: "Devi fare pipì, fermati, devi fare pipì, fermati". Ma questa volta, no. Non posso proprio permettermelo. Fermarmi adesso significherebbe gettare via tutto il mio sforzo. Continuo, soffrendo ogni passo del cammino, cercando disperatamente di superare chi mi sta davanti. Superarli è l'unica cosa che mi tiene in vita, nonostante le mie gambe supplichino di arrendersi.
Nell'ultimo chilometro ho assaporato ogni maledetto centimetro di questa città. Milano, mia cara vecchia amica, mi ha regalato tanto nel corso degli anni, ed è ancora qui, stretta al mio cuore come una catena d'oro. Qui, si lavora duro, proprio come nella corsa: fai il tuo maledetto sacrificio, e alla fine, ottieni esattamente quello per cui hai lottato così duramente. Grazie Milano oggi sei stata STRAMilano.
Questa qui, l'ultima foto, racconta tutto. Non c'è bisogno di parole, solo il riflesso di chi siamo, di cosa siamo capaci, e cosa ci piace. Uno sguardo dentro noi stessi, crudo e senza censure. Non ci servono filtri, né pose studiate. Siamo quello che siamo, e questo mi basta e avanza. Non ci chiediamo perché, né dove andremo. Viviamo nell'istante, in bilico tra il sogno e la realtà. Non abbiamo bisogno di spiegazioni, solo di vivere. E in questa foto, c'è tutta la verità che vogliamo vedere. Santacorsa.
Come sempre se siete arrivati fin qui vi dico bravi e soprattutto grazie. Se mi leggete per la prima volta, io sono Verio e questa è “Fuga dalla realtà” una newsletter settimanale, anzi no mensile, anzi facciamo che ci scriverò quando ne ho voglia senza prendere impegni seriosi. Ho creato questa newsletter per parlarvi di corsa in un modo alternativo e magari ispirare qualcuno a cominciare. Per farlo al meglio vi dovrò senz’altro parlarvi di ciò che mi circonda, come mia moglie, il mio cane, la fotografia, i libri, la musica, il cinema, il cibo e anche qualche spettegulez.
Qui sulla pagina About troverete qualche info su di me, qui invece potete seguirmi su Instagram.
Davvero un piacere leggerti, my friend.
STRA-VERIO!
Come al solito, arrivo al fondo della newsletter e mi pare di aver corso a 3:30 di fianco a te.
Potentissimo!